«L’aggettivo sacro si riferisce a tutto ciò che è connesso all’esperienza di una realtà del tutto particolare, rispetto alla quale l’uomo si sente inferiore e prova una sensazione di smarrimento, restandone atterrito e insieme affascinato».
Definizione di “sacro”, Dizionario Treccani
In architettura la sacralità si fonda sulla costruzione di un limite, che definisce un “al di qua” e un “al di là”, una barriera, un recinto, che ha le caratteristiche di difendere e proteggere nei confronti dell’altro, di ciò che sta fuori dal limite, in generale un po’ come una qualsiasi costruzione dell’uomo che definisce un limite, un confine tra interno ed esterno. Certamente il materiale utilizzato incide sul messaggio che l’architettura vuole trasmettere, e una costruzione in pietra o calcestruzzo, pietra artificiale, è subito legata all’idea di qualcosa che possa durare nel tempo.
Nell’antichità il luogo sacro era definito da un peribolo, che distingueva il luogo sacro dal non sacro, e il prototipo del recinto sacro è sicuramente il sito neolitico di Stonehenge, una costruzione in pietra con più di 4000 anni di storia. La sacralità del luogo è dunque riconoscibile da segni che, se anche permeabili, incutono un senso di rispetto e contraddistinguono il luogo in cui si incontra la comunità, il luogo dello spazio in cui si compie il “sacrificio”, il “rendere sacro”. Il tempio, dal latino templum, etimologicamente nella sua radice tem- indica il tagliare, cioè il delimitare il luogo da adibirsi al culto tagliandolo dallo spazio circostante, diventando quindi un riferimento per la comunità, oltre che il punto di incontro tra umano e divino.
Le caratteristiche che definiscono il tempio, e che sono legate a tutte le costruzioni sacre, dalle piramidi egizie alle chiese cristiane, tutte accumunate dall’uso della pietra come materiale da costruzione, sono quindi la riconoscibilità del luogo per tutta la comunità – anche il più elevato così da essere il più vicino al cielo, come nel caso dell’acropoli, la “città alta”; e il luogo in cui si consumava la connessione tra l’uomo e la divinità, in cui si compiva il sacrificio, il luogo il cui l’accesso era legato al rito della purificazione, e quindi accessibile solo per alcuni.
La sacralità è quindi il luogo del rito, il risultato di un vero processo di costruzione non solo fisica ma anche sociale, dove la collettività si riconosce nel sacro di un determinato luogo, che diventa poi costruzione fisica per imprimersi nella memoria del contesto sociale, che sia durevole nel tempo, quasi eterno, monumentale. Soprattutto nel periodo delle costruzioni gotiche, massima espressione di grandi opere monumentali costruire in pietra, abilmente tagliata e scolpita, l’atto di costruzione di una cattedrale era un evento comunitario, reso possibile dalla partecipazione, soprattutto economica, di tutta la comunità.
La sacralità di un luogo è quindi anche legata alla monumentalità, all’uso della materia, che è stata strumento espressivo dal sistema trilitico gigante di Stonehenge fino ai possenti muri delle chiese romaniche, per poi passare tramite le snelle costruzioni gotiche in pietra, fino alle concavità e convessità barocche ricoperte di stucchi.
Non solo la chiesa, ma anche la sinagoga e la moschea, sono espressione della relazione tra il creatore e il creato, trasformando quindi l’architettura sacra nel luogo della manifestazione. Il fatto architettonico costruito diventa uno strumento tangibile per comprendere meglio il divino, un tentativo di rappresentarlo, anche attraverso la matericità della costruzione; non a caso la sapienza dei costruttori delle cattedrali gotiche era paragonata a una conoscenza alchemica, magica, sacra, alla capacità di scolpire la pietra naturale per sfruttare al meglio le sue intrinseche capacità.
Se dunque la pietra era il materiale prediletto per il luogo sacro, per qualcosa di prezioso, che dovesse durare nel tempo, dalla fine del XIX secolo in poi, il materiale per eccellenza è diventata la pietra artificiale: il calcestruzzo. Infatti, con l’avvento del calcestruzzo i costruttori-progettisti hanno plasmato la materia per conferirgli le forme desiderate, modificando anche le caratteristiche materiche per raggiungere a incredibili esiti architettonici. «La costruzione di una nuova chiesa in Italia è oggi un fatto raro e complesso», si legge nell’articolo di Matteo Ruta e dedicato al Centro Parrocchiale di San Giacomo Apostolo a Ferrara, progettato da Benedetta Tagliabue e dallo studio Miralles Tagliabue EMBT, presentato nel numero 856 di IIC L’Industria Italiana del Cemento di giugno 2022. La chiesa è per sua natura una costruzione che deve durare, e pertanto anche la scelta del materiale da utilizzare, nella nuova Chiesa di Ferrara, non poteva che, come si legge ancora sull’articolo, «far propendere per un materiale durevole come il cemento». «Un’umile capanna, fatta di canne e di cemento grezzo» l’ha definita la progettista italiana Benedetta Tagliabue, «uno spazio circolare e avvolgente con una forma archetipica e spirituale che ispira il raccoglimento, ma è nel contempo piena di luce». Calcestruzzo a vista non trattato per muri e volte ma anche per i pavimenti. Il materiale, come scritto nell’articolo, diviene espressione di una «“macchina di trasformazione” in grado di far cambiare l’atteggiamento di chi varca la soglia d’ingresso, entrando proprio in relazione con lo spazio sacro».
Il calcestruzzo è quindi oggi come la pietra naturale nel corso della storia, il materiale per eccellenza per la realizzazione di quel templum, di quella “macchina di trasformazione” che collega il sacro, come nella sua definizione etimologica, “all’esperienza di una realtà del tutto particolare”.