Dettaglio ponte calcestruzzo
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Le infrastrutture per il rilancio del Paese

Il Recovery Fund, da tutti acclamato come un importante toccasana per il nostro Paese, è stato inevitabilmente legato a doppio filo alla pandemia Covid e alla necessità di combatterla. L’Italia, essendo tra i Paesi più colpiti, non ha sorpreso che sia stata anche tra i maggiori beneficiari dei fondi (che rimangono a tutt’oggi ancora in attesa di un via libera definitivo da parte delle istituzioni europee).

Eppure, in una sorta di eterogenesi dei fini, il Recovery Fund finirà, se ben utilizzato, per generare conseguenze inattese, o quanto meno non pianificate, altrettanto rilevanti di quelle legate al fronteggiare l’emergenza attuale: e cioè colmare l’evidente gap infrastrutturale che caratterizza, più di qualsiasi altro stato membro europeo, la nostra penisola. 

Il rapporto di Oxford Economics sullo stato globale delle infrastrutture non potrebbe essere stato più chiaro: dall’Europa nel suo complesso ci si aspetta investimenti in infrastrutture pari a quasi 13.000 miliardi di euro da qui al 2040 (la maggiore quota assorbita dai settori dell’elettricità e delle strade), rispetto a un’esigenza di quasi 15.000. Questo gap è differenziato tra settori: più del 20% per ferrovie, strade e aeroporti, ma attorno al 60% per porti (molto minore è il gap per telefonia e idrico).  Per quanto concerne le esigenze a seconda dei Paesi, tuttavia, l’Italia è la Cenerentola, ultima, con il più ampio gap da colmare, specie su porti, aeroporti e ferrovie.

Questo stato di cose si lega a filo doppio alla scarsa qualità delle infrastrutture esistenti in Italia, ampiamente documentato da vari lavori, ultimo quello della Banca Centrale Europea[1] che riconosce al nostro Paese un miglioramento dal 2006 al 2014 che non è però sufficiente a farci rientrare sopra alla media europea (vedi grafico).


Questa carenza è strettamente legata alla spiccata decrescita reale degli investimenti pubblici di questo ultimo decennio, pari a circa il -4% annuo, caratterizzato da assurde politiche di austerità che hanno inviluppato l’Italia in un periodo di recessione e poi stagnazione, causando anche instabilità finanziaria, con un debito pubblico sul PIL che si è accresciuto di circa 30 punti percentuali a causa, piuttosto che malgrado, delle politiche di restrizione di bilancio dettate dall’Unione europea e supinamente accettate a casa nostra.

Chi ne ha fatto le spese? I dati sono inequivocabili. È specie ma non soltanto nel Meridione, e di nuovo specie ma non soltanto nell’edilizia, che l’impatto su occupazione e valore aggiunto si è fatto sentire maggiormente. Ma questo shock negativo da “domanda” sottostima gli ulteriori danni dall’avere rinunciato alla leva degli investimenti pubblici in questi anni critici.

In effetti, questi combinano in genere tre ulteriori effetti virtuosi di medio-lungo termine raramente menzionati nel dibattito di politica economica. Primo, l’aumento di capitale materiale e immateriale pubblico genera miglioramenti nella produttività delle imprese private e nel benessere dei cittadini che rendono il Paese più competitivo e attraente in un’ottica internazionale, generando effetti di offerta analoghi se non superiori a quelli di più immediato impatto sulla domanda aggregata. Secondo, l’occupazione che si genera con tali investimenti, per esempio nelle costruzioni, solleva dalle difficoltà economiche proprio quelle classi meno agiate che non hanno modo di ricorrere ai risparmi per affrontare la crisi. È chiaro come tali misure si pongono in tal senso come sostitute di altre politiche di redistribuzione alle fasce più deboli ma, al contrario del reddito di cittadinanza, lo fanno mettendo al centro della loro azione il lavoro e le dignità delle persone, che in esso trovano gratificazione e status sociale. Terzo, non va dimenticato per chi vengono costruite in ultima analisi queste infrastrutture: per le future generazioni, che ricevono – finanziate dai genitori – opere che saranno in larga parte usufruite da queste.

Forse è proprio perché ne sono i maggiori beneficiari i giovani che gli investimenti pubblici sono sempre stati tra i primi a subire i tagli dell’austerità: troppo pochi sostenuti da una lobby che deve ancora nascere. Questo dato di fatto potrebbe causare ansia anche in vista dell’uso dei fondi del Recovery Fund: sapremo spendere i soldi non su altre voci di flebile e solo transitorio impatto sulla nostra economia ma su quelle voci di impatto di lungo termine, cioè proprio su quelle con il maggiore moltiplicatore della crescita, ovvero gli investimenti pubblici?

Le risorse messe a disposizione dalla UE (sovvenzioni + prestiti)


La garanzia che offre la presenza di una sorveglianza europea dovrebbe togliere sin da subito ogni dubbio sulla coerenza della nostra azione sull’utilizzo di tali ingenti somme. Almeno sulla carta. Vero è, come fa notare il Governatore della Banca d’Italia Visco, che corriamo due grandi rischi. Il primo, quello di una scarsa governance del progetto Recovery, ovvero il rischio che vi sia un eccesso di progetti dal basso con piccoli trasferimenti a pioggia a tanti senza un progetto organico: “tutto questo richiede che i progetti siano condivisi, quindi capisco lo sforzo del Governo di cercare di mettere d’accordo tante realtà, statali e locali. Ma, contemporaneamente, la direzione dev’essere chiara, decisa e ben individuata a livello centrale”. Dieci grandi filoni, ad ognuno dei quali dedicare 20 miliardi di euro, equamente suddivisi sul territorio, con un occhio di riguardo per il Meridione, e la lista è presto fatta: porti e aeroporti, ferrovie, dissesto idrogeologico, messa a norma degli edifici a rischio sismico, rinnovamento degli edifici scolastici e universitari, ricostruzione e ampliamento delle carceri, banda larga, infrastrutture idriche, manutenzione stradale. Nove filoni, dov’è il decimo?

Per il decimo bisogna nuovamente tenere da conto i moniti del nostro Governatore che afferma come “si sta giustamente discutendo di quali progetti scegliere, ma l’esecuzione è forse la fase più problematica. Pensiamo a come sono stati usati in passato i fondi europei e a quanto lungo è il tempo che passa tra l’individuazione di un progetto e il suo completamento”. Il rischio più grande effettivamente è quello dovuto alla scarsa capacità amministrativa delle nostre stazioni appaltanti, depauperate anch’esse da anni di disinvestimento nelle risorse umane all’interno della Pubblica Amministrazione.  È proprio il Recovery Fund che chiede si dedichino risorse a tali capacità amministrative: reclutare i migliori, pagandoli bene, se non condizione sufficiente è certamente condizione necessaria affinché il Recovery Fund e i suoi fondi si tramutino in vera ripresa e non in sprechi. Il decimo sylos di spesa andrà indirizzato proprio lì, sulle risorse umane.

Non sarà sfuggito ai più come all’interno dei nove filoni su menzionati la parte del leone la facciano per certi versi l’edilizia e le costruzioni. Non è un caso, si dirà: è lì che la crisi ha colpito maggiormente. Ma cosa ne direbbe l’Europa che chiede che una larga parte dei finanziamenti sia verde e/o sostenibile? Non è forse contrario all’ambiente e alla sostenibilità dedicare così tanto spazio al… cemento? Certamente è sostenibile, nell’ottica voluta dalle Nazione Unite, qualsiasi opera di costruzione che si rivolga a restituire dignità alle persone nelle carceri, piuttosto che alle persone senza acqua corrente continua, piuttosto che a ragazzi che studiano in ambienti malsani e insicuri.  Ma c’è di più. È ormai evidente in tutte le gare d’appalto per costruzioni nei Paesi avanzati come l’innovazione e la sostenibilità la facciano da padrone con soluzioni tecnologiche che permettono di riqualificare o ricostruire in maniera più efficiente e più rispettosa della natura. Come giustamente cita il Rapporto di Filiera di Federbeton del 2019: “la filiera produttiva del cemento e del calcestruzzo svolge un ruolo attivo nella transizione verso l’economia circolare; la stessa, infatti, applicata alla filiera del cemento e del calcestruzzo, è il miglior veicolo per contribuire al contenimento dei cambiamenti climatici. L’attuazione di azioni volte al recupero di materia, al recupero energetico, all’ottimizzazione dei processi produttivi e al dialogo con i territori, è fondamentale per ridurre l’impatto climatico e realizzare un virtuoso modello economico circolare”.

L’occasione del Recovery Fund non potrà ripetersi.  Perderla, dando ragione a quei Paesi più scettici sull’Italia che affermano che non sappiamo spendere, arresterà per sempre la fiducia in noi e nuove opportunità di crescere insieme all’Europa. Vincerla, spendendo bene e con impatto efficace, significherà poter per sempre sedersi al tavolo europeo e pretendere di poter riprendere il cammino degli investimenti pubblici senza che ci possa essere detto “non puoi spendere perché spendi male”. Ai nostri leader e al nostro Paese è stato gettato un guanto di sfida, a noi spetta raccoglierlo e mettere in moto tutto quel potenziale che l’Italia ha saputo sempre dimostrare di avere nei momenti di grande difficoltà.


[1] Jasper de Jong, Marien Ferdinandusse, Josip Funda, Igor Vetlov, “The effect of public investment in Europe: a model-based assessment”, ECB WP n. 2021, 2/2017.

Gustavo Piga
Professore ordinario di Economia Politica presso l'Università di Roma "Tor Vergata", ha conseguito il Ph.D. alla Columbia University di New York ed è esperto di politiche economiche europee, spesa pubblica e anti-corruzione. Presidente di Consip SpA dal 2002 al 2005, avvia il processo di razionalizzazione della spesa pubblica e di spend management dell’ente. Per la prestigiosa casa editrice del MIT di Boston ha pubblicato, come co-curatore, il volume “Revisiting Keynes”.

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