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Il calcestruzzo nel cinema

Cinema e calcestruzzo: un binomio singolare, ma sorprendentemente vivo. A volte è un elemento sotteso, latente, a cui il pubblico non presta attenzione. Ma spesso è la struttura che permette a una storia di esistere sullo schermo. Un esempio fra i tanti? Il gladiatore di Ridley Scott, uno dei registi più prolifici degli ultimi anni, capace di giostrarsi tra l’affresco storico (The Last Duel) e l’epopea famigliare (House of Gucci). 

Nel film lo schiavo Massimo Decimo Meridio sfida l’imperatore attraverso le regole dell’arena. Il sangue scorre copioso, la platea viene proiettata nella sabbia del Colosseo, uno dei simboli di Roma, che ancora oggi si regge saldo proprio grazie a una formula particolare di calcestruzzo. Tutto partiva dalla calce, che i romani ottenevano bruciando la pietra calcarea. A questo aggiungevano dell’acqua, e nasceva un impasto, che veniva mescolato con la cenere vulcanica. Si creava una malta particolarmente forte, che con pezzi di mattoni e altro diventava come roccia. La vera chiave che ha fatto sopravvivere i monumenti fino a oggi sembra essere una cenere particolare che proveniva dalla Campania, il Pulvis Puteolanus. Oggi i processi di creazione sono tutt’altra cosa. Ma se possiamo ancora narrare epiche gesta all’interno dell’Anfiteatro Flavio, è grazie al genio di quei costruttori che iniziarono i lavori 70 anni dopo Cristo. 

Pensiamo alle arcate che attraversa Russel Crowe, il complesso sistema di piattaforme che vediamo durante le battaglie. Il terreno si apre e, oltre agli uomini, nei sanguinari duelli si aggiungono bestie feroci di ogni tipo. Il resto è Storia, anche se gli esperti sostengono che l’uccisione di Commodo (che vediamo nel film) per mano di un gladiatore sia solo una leggenda.

Facciamo un salto in avanti nel tempo. Grandi maestri si sono confrontati con il calcestruzzo sullo schermo. Tra questi troviamo Jean-Luc Godard. In pochi si ricordano il suo debutto dietro la macchina da presa nel 1958. Si trattava di un cortometraggio di venti minuti, un documentario in bianco e nero, in cui mostrava la costruzione della diga più alta d’Europa: la Grande Dixence, situata in Svizzera. Il titolo è Opération béton, “Operazione cemento”. Venne anche distribuito nelle sale cinematografiche, proiettato prima di Tè e simpatia di Vincente Minnelli, un dramma “scabroso” che veniva dai palcoscenici di Broadway. Subito dopo, Godard esplose col suo capolavoro Fino all’ultimo respiro, con un debuttante Jean-Paul Belmondo.

Il suo esordio prese vita quasi per caso. Godard viveva in Svizzera con la sua famiglia, ma aveva anche la cittadinanza francese. Non voleva fare il servizio militare imposto dalla Francia, e la madre riuscì a farlo assumere proprio nel cantiere della Grande Dixience. Il suo compito era di fare il centralinista, isolato sulla montagna, e in questo clima fuori dal mondo il giovanotto cominciò a pensare a un film da vendere poi alla Compagnia. Un amico gli procurò la cinepresa, e Godard cominciò quasi per caso a diventare uno dei grandi della “Nouvelle Vague” e un maestro del cinema di sempre. Le riprese partirono in concomitanza con i grandi getti di cemento del 1954. Godard ci si sofferma con generosità, mentre la sua voce fuori campo racconta che cosa succede all’interno del cantiere. Le registrazioni le aveva effettuate con un magnetofono, per catturare l’audio nel modo più fedele possibile. Così anche il calcestruzzo torna a essere protagonista. E forse non è mai stato accompagnato da una colonna sonora così ispirata: le musiche sono di Bach ed Händel.

Stacco, dissolvenza, passano i decenni, arriviamo al 2014. Il film è Locke di Steven Knight, con Tom Hardy. Ivan Locke è il responsabile di un enorme getto di cemento. Ma la sua vita privata prende il sopravvento. La telefonata di una donna misteriosa lo spinge ad abbandonare il lavoro, a mettersi in macchina e iniziare un viaggio nella notte. L’elemento interessante di Locke è che da quell’auto non si esce mai. I primi piani sul volto di Hardy lo intrappolano in un palcoscenico di suspense. Il ritmo e la tensione sono costruiti attraverso le continue telefonate che Locke riceve. È un po’ come se fossimo in La voce umana di Cocteau: non vediamo mai chi c’è dall’altra parte del telefono. Ma qui le regole sono quelle del thriller, con l’oscurità sempre più opprimente e l’andare dei chilometri che è parte di un viaggio verso gli inferi.

Anche il calcestruzzo è presentato in una chiave particolare. Se nel Gladiatore faceva parte della scenografia, evocava tecniche di costruzione lontane. Se in Opération béton riempiva le inquadrature, era l’unità fondamentale. In Locke invece è parte integrante, anche se invisibile, del racconto. Simboleggia infatti il peso delle responsabilità che si scontrano con i sentimenti. Cuore e cemento, direbbe qualcuno. Locke cerca di dare indicazioni a un suo collaboratore, di non abbandonare del tutto il progetto, anche se lui non è presente. Ma l’equilibrio è impossibile, l’armonia è solo un sogno. Anche poche semplici istruzioni per gestire un getto si fanno specchio della fragilità dei rapporti umani. Locke ci suggerisce che per innalzare, edificare, servono materiali solidi anche psicologicamente, altrimenti il crollo è inevitabile. Specie nel buio di un’apparente notte di quiete. 

Gian Luca Pisacane
Giornalista professionista e critico cinematografico. Scrive per La Rivista del Cinematografo e Cinematografo.it, 8 1/2, e Famiglia Cristiana. Ha una rubrica settimanale su Radio Marconi. Collaboratore del Lecco Film Fest, Castiglione Cinema, Taormina Film Fest. Nel 2017 ha vinto il Premio Libertà assegnato da Liberteam, durante la prima edizione del Premio CAT.

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