La storia dell’arte è anche storia di materie. Si può raccontare la sua evoluzione tracciando un percorso a partire dalle sostanze utilizzate come strumento, come supporto oppure volendo come autonome espressioni di senso.
Di questa storia il “muro” è certamente elemento perpetuo e imperituro, protagonista di un percorso che parte dai primi segni tracciati sulle pareti di una caverna e arriva florido fino ai nostri giorni.
Osservando questo primo quarto di XXI secolo, a dispetto insomma di ogni previsione, nonostante tutta la tecnologia a disposizione, le diverse forme di concettualismo, i neo-ready-made di ogni genere e qualità, la vera notizia è che il muro, come supporto per la pittura, gode di ottima salute.
Il muro protagonista dell’arte attuale non è certo nelle caverne, non è nelle dimore principesche, né tantomeno nello cattedrali, chiese o sontuose cappelle di famiglia, lì dove la storia di questo supporto ci indica sia stato comunemente utilizzato.
Il muro di cui si parla oggi è nelle città, la sua essenza è il cemento e il suo contesto spesso la periferia. Cemento e città, il binomio imprescindibile per comprendere la nascita e l’evoluzione non solo della street art ma di parte dei movimenti artistici del Novecento che dal Futurismo al Dadaismo al Situazionismo hanno compreso l’influenza del contesto urbano nelle pratiche artistiche.
Lo sviluppo vertiginoso delle grandi metropoli ha indotto i primi artisti, oggi storicizzati, all’inizio degli anni Settanta in America a sperimentare un nuovo modo di intendere il muro. Passa poco più di un decennio e a Documenta 7 a Kassel nel 1982 viene ufficializzato questo fenomeno artistico. A esporre ci sono Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, due giovani artisti di New York che hanno consentito a questa forma d’arte, dai confini molto ampi, di essere riconosciuta dal sistema dell’arte che conta.
Da allora ad oggi c’è stata una rapida ascesa di questo genere artistico dalle numerose evoluzioni, fra graffitismo, public art, spray art, aerosol art, stencil art, sticker art, poesia urbana. Un’ascesa quasi inarrestabile che ha contaminato profondamente la nostra cultura dalla moda, alla grafica, al design, alla pubblicità. Oggi siamo abituati alla street art, ne siamo immersi, assuefatti forse, ma essa continua comunque, nelle sue espressioni di maggiore qualità, a manifestarsi vitale e attuale.
Avvicinandosi a queste grandi o piccole superfici urbane si osservano segni, disegni, lettere, linee, colori, dai nomi specifici, come tag, bubble, crew, crossing over, masterpiece, per citare solo alcune delle parole più note di un glossario ovviamente internazionale, nato nella strada e assunto nel linguaggio artistico contemporaneo.
Non è facile mettere ordine in questa produzione infinita che a volte ha irritato, altre volte stufato, per alcuni ha avuto la colpa grave di violare il decoro urbano, ma che molto più spesso ha meravigliato, sorpreso, rapito, folgorato, comunicato.
Si va dal semplice e essenziale desiderio di graffiare il muro con il proprio nome, sempre di più, con quella pratica cosiddetta bombing che consiste nel ricoprire più superfici possibili, dal muro ai treni, alla metropolitana. Ne parla la prima volta il New York Times nel 1971, sono gli albori di questa pratica ancora oggi diffusissima (basti pensare a GECO, per citare l’ultimo tag venuto alla ribalta della cronaca) e che rivela un desiderio giovanile autentico: uscire dall’anonimato prendendo una distanza da quello che ci circonda.
Quei graffiti sono l’inizio di un fenomeno che da estremo, ribelle e clandestino, diventerà in pochi anni capillarmente planetario, articolato e molto spesso spettacolare, in grado a volte di mantenere intatte le caratteristiche degli inizi, altre di evolversi, in un percorso di rinnovamento che lo fa uscire sempre più allo scoperto.
I writers della prima ora così come gli artisti urbani più contemporanei hanno compreso che il cemento delle periferie urbane, nei quartieri popolari, fra luoghi abbandonati, palazzoni con pareti cieche o sottopassaggi, è un supporto vivo e palpitante il cui pregio è di essere in mezzo alla gente, esattamente all’opposto delle pareti asettiche delle gallerie d’arte, distanti, ovattate, solo per pochi. La rete ha fatto il resto, dando la possibilità a muri localizzati e magari sperduti di circolare ovunque, molto più di quanto possa fare un qualunque patinato catalogo d’arte.
La componente decorativa a volte c’è, soprattutto in anni recenti, ma segue sempre l’esigenza espressiva, politica, sovversiva, di rottura e rifiuto degli schemi esistenti che rappresenta il vero movente di quest’arte. Senza di essa non sarebbe spiegabile la East Side Gallery sul Muro di Berlino, non sarebbe spiegabile Banksy, vera star del momento, Shepard Fairey, Pino Boresta, Blu, Escif, Paul Insect, in un elenco del tutto arbitrario valido solo a citare qualche esempio della generazione di mezzo.
Parlando di street art di ieri, di oggi o ancora di domani, quello che conta è la sua componente urbana, il suo nascere come fenomeno spontaneo, una spontaneità che per assurdo rende quest’arte comparabile con la natura. Il biologo e agronomo Gilles Clément ha individuato un tipo di natura particolare, il cosiddetto Terzo Paesaggio, in grado di ri-appropriarsi di spazi non più attenzionati dall’uomo, come le aree dismesse o quelle residuali poste ai margini delle strade. Clement ne parla come zone di biodiversità, zone indecise in cui la natura occupa spazi non deputati. Al pari della natura, inarrestabile nel suo divenire biologico, l’arte urbana in questi oltre cinquanta anni ha dimostrato, fra cemento, muri, costruzioni, paesaggi urbani e metropoli, tenacia e capacità di appropriarsi di spazi nuovi, non a lei certo destinati ma, proprio per questo, forse, in grado di farla arrivare più lontano!
Opera in copertina: Tina Loiodice, Pensieri di Bimba, progetto “Caleidoscopico”, Santa Maria della Pietà, Roma